Non chiamatele ricettine
Le ricette sono un condensato di poesia, scienza, e attivismo politico.
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Ieri sono stata a Bologna per partecipare a XFood, un evento di Soluzione Group in collaborazione con Scuola Holden. Il tema era Il racconto del cibo da nuovi punti di vista, e insieme ad altri professionisti (li trovi tutti qui) abbiamo affrontato il tema dello storytelling del cibo, ognuno con la sua prospettiva. Io ho parlato di ricette, del loro potere, del loro valore.
Nella newsletter di oggi riporto il discorso che mi ero scritta, perché vorrei condividere con voi il ragionamento su cosa sta dietro una ricetta, e perché sono curiosa di sapere cosa ne pensiate.
Per lavoro scrivo ricette, e mi trovo anche spesso a cucinare ricette di altri per puro piacere.
Quindi so bene che non c’è niente di più deludente di una ricetta che non funziona. Quando testiamo una ricetta, la scriviamo, e poi la mettiamo là fuori, nel mondo, qualcuno la intercetterà: potranno essere i lettori della nostra newsletter, o chi comprerà il nostro libro di cucina, qualcuno che segue il nostro profilo sui social, o che capita per caso nel nostro blog cercando pollo fritto toscano, o parmigiana di melanzane, o zuppa di verza.
Ecco, se quelle persone decideranno di scegliere la nostra ricetta, vuol dire che investiranno del tempo e dei soldi, investiranno la loro fiducia in noi. Il minimo che possiamo fare è renderci degni della loro fiducia, e riconoscere il valore di quell’investimento di tempo e soldi che stanno facendo.
E come possiamo fare? Ricordando che quello che stiamo condividendo non è solo una ricettina—uno dei termini che più odio del mondo del cibo on line, mi dà l’orticaria, proprio—, ma un condensato di poesia, scienza, e attivismo politico.
Una ricetta è poesia.
La ricetta, proprio come la poesia, dovrebbe creare un’immagine il più possibile vivida nella mente del lettore. Ti trovi seduta sul divano, un libro di cucina in mano. Cominci a leggere una ricetta, e piano piano ti fai un’idea del procedimento, delle sensazioni che proverai a stendere l’impasto lievitato sul piano di legno, del risultato finale. Addirittura del profumo che si spanderà dal forno una volta che la focaccia sarà cotta. Percepirai con precisione, nella tua mente, sulla lingua, e sulle tue papille gustative, i granelli di sale grosso, l’olio misto alla salamoia, la superficie croccante e l’interno morbido, arrendevole, soffice.
Il passo successivo sarà alzarsi e andare in cucina a controllare se hai ancora del lievito di birra in frigo. Questa è una delle caratteristiche che una buona ricetta ha in comune con la poesia: crea mondi immaginari che sembrano veri, risveglia ricordi e sensazioni.
Con la poesia condivide l’uso di figure retoriche che aiutano a rendere il linguaggio più vivido ed efficace. Le similitudini e le metafore hanno proprio questa funzione.
Nigel Slater, nel suo The Christmas Chronicles, dice, parlando del panforte:
“There is also something ancient about this shallow, fudge-coloured sweetmeat. As if you were chewing a medieval manuscript.”
Da quasi senese, non ho mai trovato una descrizione più efficace, e che riesce a mettere insieme texture, storia e tradizione del panforte come questa.
A questo si aggiunge un’importanza del linguaggio forte, attivo, concreto, specifico, proprio come nella poesia. Nello scrivere ricette e nel parlare di cibo dovremmo scegliere pochi aggettivi—quelli giusti—, verbi attivi, nomi specifici. Quindi non pasta, ma tagliatelle. Non buono, ma zuccherino, cremoso, confortante, croccante.
Se scrivere ricette è come scrivere poesia, possiamo finalmente sdoganare il fatto che il food writing—e lo scrivere ricette!—non siano un genere minore. Il food writing è letteratura.
Per chiarire l’importanza del linguaggio, e degli aggettivi giusti, quando si scrive di cibo, vado a scomodare un romanticissimo film degli anni 90, City of Angels. Meg Ryan è una chirurga di Los Angeles. Nicolas Cage è un angelo incorporeo che si innamora di lei. Non voglio spoilerare il finale nel caso in cui non abbiate visto questo film romantico, e drammatico, ma vi riporto questo dialogo tra i due innamorati. Si parla di una pera.
Seth: Com’è? Che sapore ha? Descrivilo come farebbe Hemingway.
Maggie: Beh, ha il sapore di una pera. Non sai che sapore ha una pera?
Seth: Non so che sapore abbia una pera per te.
Maggie: Dolce, succosa, morbida sulla lingua, granulosa come sabbia zuccherina che si scioglie in bocca. Che te ne pare?
Seth: È perfetto.
Una ricetta è scienza.
Una ricetta è come una formula matematica, ci sono ingredienti e quantità precise, reazioni chimiche che accadono in cucina, acidi e basi, grassi e calore. Proprio come in un esperimento scientifico, serve precisione quando siamo in cucina per testare una ricetta. Tra i miei strumenti preferiti quando sviluppo una ricetta c’è un righello, per misurare la dimensione di pentole e teglie, un cronometro - ehi Alexa, imposta timer 15 minuti, cipolle - e un quaderno dove annotare tutti i passaggi, i tempi, e —importantissimo—, i riferimenti visivi.
Per scrivere bene una ricetta, infatti, non basta dire: cuoci la torta per 45 minuti, perché sappiamo tutti che ogni forno è diverso, che le temperature variano, così come variano le condizioni ambientali. Quindi dovrò dire: cuoci la torta per 45 minuti, o fino a che… uno stuzzicadenti inserito al centro non esce pulito, o i bordi non sono dorati, e il centro ancora leggermente morbido, oppure fino a che—e penso a una pie di frutta—lo sciroppo non inizia a sobbollire sui bordi.
Abbiamo un esempio perfetto, in Italia, di autore di libro di cucina che scrive ricette con un approccio scientifico. Penso a Dario Bressanini, ai suoi libri, come La Scienza della Pasticceria, La Scienza della Carne, e La Scienza delle Verdure, e al modo dettagliato, preciso, scientifico, con cui spiega quello che avviene quando ingredienti come uova, zucchero e farina si incontrano. All’estero ci sono altri grandi autori, come Kenji Lopez Alt, autore di The Food Lab: Better Home Cooking Through Science, e di tecniche di cottura che sono diventate virali, come la sua reverse sear per cuocere la bistecca.
E poi c’è Samin Nosrat, che forse conoscete per la serie Netflix Salt, Fat, Acid, Heat, che ha scritto l’omonimo libro nel 2017. Secondo Samin Nosrat, quando si riescono a padroneggiare questi quattro elementi dell’equazione—sale, grasso, acido e calore—siamo in grado di cucinare bene, in maniera costante. Il suo è un libro che non ha foto, ma illustrazioni, diagrammi, schematizzazioni, che spiegano in maniera scientifica come fare un condimento per l’insalata che bilanci acidi e grassi, o come l’uso del sale si estenda su uno spettro che va da cartone, passa per bleh, raggiunge il cibo delizioso quando c’è un uso bilanciato del sale, e poi prosegue verso acqua di mare e pezzo di sale.
Una ricetta è resistenza, attivismo politico, memoria culturale.
Quando nel marzo 2022 la Russia ha invaso l’Ucraina, due amiche food writer londinesi—Olia Hercules, ucraina, e Alissa Timoshkina, russa di origini ucraine— sono rimaste da principio pietrificate. Un sentimento che ha accomunato tanti di noi, anche se non toccati direttamente dalla guerra come loro.
Nel giro di pochi giorni hanno reagito, e lo hanno fatto attraverso la condivisione di quello che di più intimo, comune, quotidiano ci possa essere: ricette di famiglia, memoria storica di un popolo. Mentre la Russia cercava di negare l’identità culturale, politica, linguistica, e anche gastronomica di un popolo, loro la riaffermavano condividendo la ricchezza della cucina ucraina, con i borsh, i fermentati, le paste fresche ripiene, e le cucine estive costruite all’esterno, dove trasformare i prodotti di stagione quando il caldo si fa soffocante.
Despite my strong Ukrainian identity, I have always cherished and taken pride in the cultural diversity that we were so lucky to enjoy in Ukraine. My paternal grandmother is Siberian, my mother has Jewish and Bessarabian (Moldovan) roots, my father was born in Uzbekistan and we have Armenian relatives and Ossetian friends. - Olia Hercules, Mamushka: Recipes from Ukraine & beyond
La loro azione si è trasformata rapidamente: da conversazione on line a campagna globale e comunità di persone, un movimento che ha ricalcato l’impronta del progetto Cook for Syria. Grazie alla collaborazione con altri food writer inglesi ed europei è nato quindi Cook for Ukraine, un progetto che si è diffuso rapidamente in tutto il mondo. Questo progetto è basato sulla condivisione di ricette ucraine, e sulle storie che portano con se, supper club e cene a tema—anche qui in Italia, a Milano—, eventi on line e off line, vendite di beneficenza di torte e panificati ucraini. In un anno hanno raccolto più di 2 milioni di sterline per tre organizzazioni umanitarie: UNICEF, Choose Love, e Legacy of War.
Vedete la forza dirompente che può avere un ricetta? Parla a livello viscerale, e spesso riesce a delineare l’identità di un popolo, la sua ricchezza, i suoi prodotti tipici e le sue abitudini, più di un saggio storico.
Ma quello che è successo con le ricette ucraine è successo, per altro verso, anche a noi.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento, circa cinque milioni di italiani emigrarono in America, scappando dalla fame e dalla miseria. Lasciano condizioni di povertà, e un’Italia in cui si era ancora ben lontani dall’avere un’identità culturale e gastronomica nazionale, figuriamoci regionale.
Secondo Alberto Grandi1, professore di Storia Economica e Storia dell’Alimentazione, autore di DOI, Denominazione Origine Inventata, e dell’omonimo podcast, sono proprio questi immigrati, spesso malvisti dalle comunità locali nelle quali stentano a integrarsi, che costruirono gran parte della tradizione della cucina italiana. In America trovano quei prodotti che nelle aree di partenza non c’erano, o erano appannaggio di pochi fortunati. Creano un melting pot culturale in cui Nord e Sud si incontrano.
Questa nuova cucina venne poi riportata in Italia con un secondo controesodo, quando gli emigrati rientrarono in patria. Nasce così una conversazione tra due mondi che porta poi alla creazione di quella che è oggi la cucina italiana.
E indovinate chi ha un ruolo centrale in questa creazione della tradizione culturale e gastronomica italiana in America? Un manuale di cucina, quello che oggi viene chiamato semplicemente l’Artusi, ovvero La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1891.
L’Artusi e le sue ricette diventeranno per le comunità italiane in Nord America uno strumento di alfabetizzazione, di affermazione culturale e di identità gastronomica, di riscatto sociale. Addirittura, la Società Dante Alighieri, che si prefiggeva il compito di preservare l’uso della lingua italiana tra gli emigrati, arriva ad acquistare diverse centinaia di copie di questo manuale.
Abbiamo visto che una ricetta è un un condensato di poesia, scienza, e attivismo politico. Cosa serve, quindi, per scrivere bene una ricetta?
Ogni ricetta ben scritta avrà al suo interno queste tre componenti, che varieranno in base al tipo di ricetta, all’obiettivo, alla sensibilità di chi scrive e condivide quella ricetta, al suo stile. C’è però un elemento che ritorna, qualsiasi sia l’approccio scelto per raccontare la ricetta.
Serve generosità. Dobbiamo tenere in conto i passaggi critici, i possibili errori, le diverse tecniche e livelli di abilità, la capacità di anticipare le sfide e l'uso di ingredienti diversi. Dobbiamo ricordarci che non stiamo scrivendo la cronaca di ciò che è accaduto nella nostra cucina. Stiamo scrivendo una ricetta per altre persone, in altre cucine, che cucineranno la nostra ricetta in un momento futuro.
E per farlo, è necessario essere generosi. Generosi nella quantità di dettagli forniti, nel condividere piccoli consigli, descrizioni e spiegazioni che possano essere applicate anche ad altre ricette.
Quindi, per favore, non chiamatele più ricettine. Una ricetta ha un suo valore intrinseco, e può diventare una conversazione e una storia con un finale aperto.
Adesso tocca a voi. Avete mai pensato al mondo che c’è dietro una ricetta? Quando leggete una ricetta, quale aspetto è più importante per voi?
Altri link sul mondo delle ricette
Qui trovi un altro articolo sul tema ricette, scritto qualche settimana fa, che completa il ragionamento e approfondisce il concetto di generosità.
Qui invece vi racconto di come il fallimento sia una delle componenti del mio lavoro. Mi rende non solo una cuoca migliore, ma anche un'insegnante migliore e una migliore scrittrice di ricette, perché grazie ai miei fallimenti riconosco le insidie di una ricetta, e posso spiegare come disinnescarle.
Qui ho condiviso ciò che mi ha guidato nella selezione delle oltre 100 ricette che sono finite in Cucina Povera. Puoi trovare anche la bibliografia di Cucina povera.
E poi non potete perdervi questo, On Recipe Writing, di Alicia Kennedy.
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Alberto Grandi. Denominazione di origine inventata. Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani, Mondadori, 2020
APPLAUSI IN PIEDI!!! ❤️
Ho aspettato il weekend sotto l’ombrellone e gli unici 10 minuti di pace della settimana per godermi questa ode al food writing. Non chiamiamole ricettive, sono tessere dell’immenso mosaico che è l’umanità.