Chi parla per noi? La cucina italiana vista da fuori
Voci da dentro e voci da fuori: trovare un equilibrio nel racconto della cucina italiana.
Quella che segue non è una presa di posizione, né una denuncia. È una riflessione aperta. Una voce tra tante. Spero possa invitare ad altre storie, nuove sfumature e a una comprensione più condivisa.
Avevo un sogno, quando ho aperto il blog Juls’ Kitchen, 16 anni fa, e ho iniziato a scrivere anche in inglese. Raccontare la cucina italiana all’estero. Anzi, ad essere onesta, volevo essere una delle voci più autorevoli a farlo.
Ci sono riuscita? A distanza di 16 anni, adesso ne ho fatto un lavoro, anzi, un progetto di famiglia, ho un editore americano che mi paga per scrivere libri di cucina italiana che vengono distribuiti in tutto il mondo; continuo a scrivere–non più sul blog ma su questa newsletter–di quello che più mi appassiona, e ogni anno centinaia di persone partecipano ai nostri corsi di cucina.
Non so se sono diventata una delle voci più autorevoli, ma il mio spazio me lo sono preso. Ogni giorno cerco di fare la mia parte per andare oltre gli stereotipi e ritagliarmi un angolo nel brusio generale, cosa resa più difficile, pensa un po’, proprio dal fatto di essere italiana. Ma di questo ne parliamo più avanti. Negli anni mi sono tolta delle soddisfazioni: nel 2019, per esempio, il nostro blog ha vinto i Saveur Awards come Best Food Culture Blog.
Eppure, continuo a mettermi in discussione: il mio lavoro, le mie capacità, persino le mie credenze (il podcast DOI - Denominazione di Origine Inventata è stato un piccolo terremoto nella mia vita). Non mi sento arrivata, credo di aver a malapena scalfito tutto quello che c’è da imparare sul cibo italiano e sul modo di comunicarlo.
Però sono rimasta un po’ interdetta quando ho ascoltato questa puntata di Cherry Bombe Podcast in cui la conduttrice, Kerry Diamond, intervista Nadia Caterina Munno, conosciuta su IG, dove ha più di 5 milioni di follower, e su TikTok come The Pasta Queen.
Kerry Diamond: Have you met Giada yet?
Nadia Caterina Munno: No.
Kerry Diamond: Okay. We have to get all of you together. I feel like there needs to be this Marvel universe of Italian cuisine superheroes. We'll get you, Giada, Stanley, Nigella.
Nadia Caterina Munno: Yes. We need to get all together.
Kerry Diamond: Nancy Silverton. Who else?
Nadia Caterina Munno: Yeah, the Italian “Avengers.”
Quando ho sentito Kerry Diamond dire che bisognerebbe riunire tutte le voci dell’italianità in cucina in un universo Marvel—con Giada, Stanley, Nigella, Nancy, e ovviamente la Pasta Queen—sono rimasta un po’ sorpresa. Stava costruendo un pantheon pop della cucina italiana così come viene percepita e raccontata nel mondo anglosassone.
Stanley Tucci non ha bisogno di presentazioni.
Con i suoi ultimi due memoir—Taste: My Life Through Food del 2021 e What I Ate in One Year del 2024—e il programma TV condotto per la CNN Stanley Tucci: Searching for Italy, si è fatto ambasciatore della cucina italiana nel mondo. Ha anche curato il menù della cena di gala del febbraio scorso ad Highgrove Palace durante la quale re Carlo d’Inghilterra e la regina Camilla hanno ospitato l’ambasciatore italiano a Londra.
Non ho avuto occasione di vedere il suo programma—devo ammettere che Somebody Feed Phil è più nelle mie corde, con il suo approccio giocoso e scanzonato—ma quando ho scoperto che Tucci era andato da Pietro Zito, il cuoco contadino di Andria, ho avuto un piccolo sussulto. Antichi Sapori a Montegrosso è stata l’esperienza gastronomica più memorabile che ho avuto, un luogo nel quale sono tornata più volte, in diversi momenti della mia vita. È un posto che, egoisticamente, vorresti rimanesse fuori dai radar, fuori dalla bucket list delle 10 cose da fare in Italia. E se la prossima volta che provo a prenotare non trovassi più posto? Intanto, trovi la parte dedicata a Pietro Zito qui.
Stanley Tucci ha lo sguardo affettuoso di chi conosce bene la cucina italiana perché l’ha vissuta in famiglia: origini calabresi, ricette tramandate, pranzi della domenica pieni di gesti e di voci. Ma ha anche il tono misurato e ironico di chi sa raccontare il cibo senza renderlo sacro, senza ingessarlo, mantenendo sempre un equilibrio tra cultura e intrattenimento.
Giada De Laurentiis, forse non così conosciuta da noi, è però una delle voci più autorevoli della cucina Italiana negli Stati Uniti.
Come si evince dal suo cognome, è erede di una delle famiglie cinematografiche più importanti del nostro paese, ma anche imprenditrice, chef, conduttrice tv, e scrittrice di libri di cucina. Il suo ultimo libro, Super-Italian, ad esempio, è una raccolta di 110 ricette indulgent—si potrebbe tradurre golose, ricche, appaganti—fatte con gli ingredienti italiani più salutari. Ad esempio, c’è una panzanella fatta con il salmone.
Cosa ne penso di questa ricetta? è tradizionale? No. Ma Giada De Laurentiis non la spaccia come ricetta tradizionale. Probabilmente la mangerei anche volentieri se la trovassi nel menu di un ristorante. Eppure non è il salmone che mi dà fastidio, ma il modo in cui viene raccontata la panzanella: the only constant is the delicious cubes of toasted bread, which soak up the lemony dressing like little sponges and explode in your mouth with every bite. La panzanella non si fa con il pane tostato, perché nasce proprio per riciclare il pane raffermo. Ma qui sorge anche un altro problema: il pane comune che si trova negli Stati Uniti non diventa raffermo, muffa prima, quindi nasce l’esigenza di tostarlo per ricreare la stessa sensazione tattile della panzanella.
Nigella Lawson è una delle migliori food writer britanniche, nota per il suo approccio sensuale e appassionato alla cucina.
Racconta il cibo con un linguaggio sensuale, evocativo e profondamente personale, rendendo ogni piatto una piccola storia. Ha un legame autentico con l’Italia e la sua cucina, che ama fin da quando era adolescente. Ha infatti vissuto a Firenze da giovane e parla italiano. Questo amore profondo per la nostra cultura gastronomica traspare in tutto il libro Nigellissima (2012), che non è un ricettario tradizionale, ma una dichiarazione d’amore per la semplicità, la convivialità e i sapori essenziali della cucina italiana.
Apprezzo moltissimo quello che ha scritto nell’introduzione. L’ho trovato onesto, diretto, chiaro. Ma d’altronde, è Nigella:
“Ma le ricette che seguono non sono quelle nate nella cucina di Nonna: sono ciò che cucino, e soprattutto il modo in cui cucino, nella mia. Spesso ho detto per scherzo di illudermi di essere italiana, ma davvero non si tratta che di una battuta - ai miei danni, più che altro - e sento con forza che per me, dentro e fuori dalla cucina, l'essenziale è essere autentica. Sono un'inglese che ha vissuto in Italia ama il cibo italiano e ne è stata ispirata e influenzata: lo dimostrano sia il mio cibo sia il modo in cui lo cucino”
Nei paesi anglosassoni, la cucina italiana è spesso vista come sofisticata o tradizionalista. Nigella ha fatto il contrario: l’ha raccontata con naturalezza, proponendo ricette che sembrano familiari anche a chi non è mai stato in Italia. Ha costruito un ponte culturale, mantenendo il rispetto per la tradizione, ma adattandola alla quotidianità delle sue lettrici e lettori.
Mi sono professionalmente innamorata di Nancy Silverton quando ho visto l’episodio a lei dedicato su Chef Table.
Panificatrice, chef, imprenditrice: ogni cosa che fa trasmette un rispetto profondo per la materia prima e per la stagionalità, valori che sento vicini. Possiede una casa in Umbria, dove cucina, raccoglie erbe selvatiche e si immerge nella quotidianità della vita italiana senza bisogno di grandi dichiarazioni.
Nei suoi ristoranti a Los Angeles, come Osteria Mozza e Pizzeria Mozza, ha creato un ponte tra l’Italia e la California, con piatti che sembrano usciti da una trattoria italiana, ma che parlano fluentemente la lingua della sua terra d’origine.
C'è un'intelligenza quieta nel suo lavoro: mai sopra le righe, sempre focalizzata sulla cura del dettaglio, sulla semplicità fatta bene. In un’intervista per Chef’s Table dice:
La cucina italiana non riguarda la complessità. Riguarda la cura che metti nelle cose semplici.
Alla fine di quella puntata mi sono chiesta: serve davvero andare via dall’Italia per essere legittimati a raccontare ciò che ci appartiene?
Mi chiedo perché a volte chi vive immerso in questa cultura quotidianamente sembri meno visibile in questo universo mediatico. Forse perché è meno spettacolare. Forse perché è meno traducibile.
L’essere italiana non mi rende più qualificata di altri autori a scrivere di cucina italiana, questo è poco ma sicuro, ma non per questo dovrebbe rendermi meno adatta e meno attrattiva a raccontarla a un pubblico straniero, come una volta ho letto in una conversazione on line. Una guida turistica americana, residente in Italia, accusava apertamente gli italiani di non avere gli strumenti per tradurre la cultura nella quale vivono immersi per un pubblico straniero. In qualche modo creava una gerarchia implicita dove la voce esterna diventa più autentica di quella interna, solo perché meglio confezionata per il pubblico anglofono.
E non è finita qui. Anni fa, in una conversazione on line con altre colleghe straniere residenti in Italia, mi sono sentita dire: non avrai mai successo se non ti trasferisci all’estero.
Il sottinteso era chiaro: per scrivere di cucina italiana in un mercato internazionale, o sei uno straniero che vive in Italia, con lo sguardo curioso e fresco di chi scopre un mondo nuovo, o sei un italiano che vive all’estero, con la nostalgia come lente d’ingrandimento. E quindi, essere italiana in Italia mi rende meno credibile? meno affidabile? Meno appetibile per un magazine?
Forse perché si dà per scontato che, immersa nella mia cultura, io non sia in grado di spiegarla a chi la osserva dall’esterno. Come se mi mancasse la chiave di lettura per tradurre la mia quotidianità in un linguaggio che un pubblico internazionale possa comprendere.
C’è però il rischio che, a trasmettere un contenuto filtrato e tradotto, a volte si dia voce invece proprio agli stereotipi della cucina italiana che sono difficili da scalfire. Qualche anno fa, durante una lezione a una scuola per studenti americani a Siena, alcune ragazze mi hanno detto di essere rimaste stupite perché noi italiani non facciamo l’aperitivo ogni sera. L’idea che l’Italia sia una terra di aperitivo on a terrace, pizza, Vespa, ed estate costante è difficile da scalzare, come avevo raccontato in questa newsletter dedicata all’Italia fuori stagione.
Per questo mi chiedo: chi ha il diritto di raccontare l’Italia?
A questa domanda rispondo senza esitazione: chiunque, purché venga fatto con onestà. C’è chi la racconterà come vissuto quotidiano, chi come terra scelta per una nuova vita, chi come ricordo. Sogno però uno spazio di dialogo dove più voci—italiane, italo-americane, straniere appassionate—possano coesistere senza che alcune di queste voci vengano oscurate a priori.
Voci non italiane, o che guardano all’Italia da una prospettiva altra, servono. Già siamo abbastanza egoriferiti quando si parla di cucina, figuriamoci… Queste voci altre portano una freschezza che noi tendiamo a scordare, così occupati a difendere dogmi che vogliono vedere la cucina italiana come un insieme di tavole della legge che non possono essere cambiate, dimenticando che non tanto tempo fa la carbonara la facevamo tutti con l’uovo rappreso e la pancetta affumicata a cubetti, e l'amatriciana con la cipolla.
Io ho imparato tantissimo da alcuni autori non italiani che parlano di cucina italiana. Spesso ho appreso un metodo, un rigore nella ricerca, ma anche una sete di conoscere, scoprire, assaggiare, approfondire. Ho imparato a non dare per scontato, a celebrare anche i piatti che sembrano più semplici e scontati, perché è lì, nei dettagli, che si nascondono le tradizioni e un modo di fare tutto italiano.
Noi italiani siamo i più rigidi e impietosi con noi stessi, ma anche macchiette folkloristiche quando commentiamo il racconto fatto della nostra cucina da altri.
A un italiano non perdoniamo nulla quando racconta la sua cucina: guai a toccare una ricetta tradizionale e a cambiare un ingrediente per renderla più accessibile, guai a mettere le dita nella posizione sbagliata quando si fanno le orecchiette (storia vera): quello è un delitto.
Poi però, quando all’estero—anche su quotidiani e siti di altissimo livello come il NYT Cooking—si condividono ricette di piatti italiani stravolti, quasi si aspettano la risposta inferocita degli italiani. Il problema è che questa ira macchiettistica viene percepita come parte del fascino della nostra cultura: gli italiani sono fatti così, non provare a toccare la loro cucina… ma non è un gran problema, perché la cucina italiana è di tutti.
Mi chiedo: accade lo stesso con le altre cucine del mondo? Tenderei a dire di no, perché mi pare che le reazioni siano molto più accese quando si parla delle cucine asiatiche o mediorientali, al punto di invocare spesso il grave problema l’appropriazione culturale.
Quindi, per provare a tirare le fila.
Non ho risposte a molte delle mie domande, solo alcune idee che ho provato a mettere in fila.
C’è un’idea radicata secondo cui la cucina italiana debba essere raccontata con un certo filtro. Forse per questo spesso chi ha successo nel food writing internazionale ha un background che gli permette di fare da ponte tra due mondi.
E poi ci sono io (e come me tante colleghe bravissime). Italiana in Italia. Senza il privilegio dello sguardo esterno, senza il fascino dell’expat. Ma con una prospettiva altrettanto preziosa: quella di chi vive la cucina italiana ogni giorno, in modo autentico e naturale, senza bisogno di costruire un racconto epico attorno a una semplice pasta al pomodoro. Eppure, il mercato premia più di frequente chi racconta l'Italia da fuori, perché spesso una versione romanzata della nostra cucina vende più della realtà.
Non voglio creare un’idea idealizzata dell’Italia, ma raccontare la sua cucina per quello che è: imperfetta, in evoluzione, a volte contraddittoria. Non so se questo mi renderà mai una supereroina della cucina italiana. Ma so che continuerò a scrivere e a cucinare con la consapevolezza che non serve allontanarsi per capire chi siamo.
Che bellissimo articolo, e quanto necessario.
Io da italiana residente “part time”, che scrive in inglese dico che le voci anglosassoni che riempiono TUTTO lo spazio possibile hanno stancato, perché stanno facendo lo stesso con il Portogallo e prima di noi lo hanno fatto con la Francia.
A me, francamente non interessa cosa la Jennifer di turno ha da dire. Sia che sia nata in Italia da genitori WASP sia che sia immigrata alla ricerca di “eat pray love”.
A me le voci che interessano sono quelle di immigrati NON anglo-WASP. Quella che ho trovato in assoluto più interessante finora è quella di Ibrahim, proprietario e pizzaiolo a IBrIS pizza a Trento - il suo si che è uno sguardo interessante sulla gastronomia italiana, da uno che è “anche” italiano.
Quanti spunti interessanti Giulia!